III

LA PRESA DI COSCIENZA DEL ’17-18

Ma è soprattutto nel ’17, anno decisivo nella formazione leopardiana, che la prima coscienza, ancora incerta, della situazione personale infelice del Leopardi e del contrasto fra l’aspirazione ad una vita piena, operosa, illuminata dalla gloria e i limiti in cui viveva, configurati nel morboso presentimento di una morte precoce, trova ben altri termini d’appoggio (che non l’appello alla rassegnazione religiosa e alla sua convalida di una squalifica dei beni mondani), di chiarimento dei veri termini del suo dramma giovanile e dei riferimenti ideali e culturali delle sue aspirazioni e nell’incontro con una persona concreta, il Giordani, con un maestro ideale, l’Alfieri, con un’esperienza ingenua, ma genuina: l’esperienza del «primo amore» per la cugina Gertrude Cassi Lazzari.

Questi incontri ed esperienze danno ben altro valore alla «conversione letteraria» nelle sue ragioni complesse ed intere di quanto se ne potrebbe attribuire a quella del 1816 non appoggiata ad una conversione culturale e politica, ad una maturazione delle sue forze, che, solo con il ’17 e dopo il ’17, cercheranno, in modo piú irraggiato, espressioni nella prosa epistolare, memorialistica, riflessiva (l’avvio dello Zibaldone) e nella poesia elegiaca, per concentrarsi ancora piú saldamente, nel ’18, nelle due canzoni patriottiche e nel Discorso di un italiano sopra la poesia romantica e seguitare a sgorgare, senza soluzione di continuità, nello Zibaldone e nelle poesie fra ’19 e ’21 e, su su, in seguito con un crescente flusso dinamico e una problematica intensa e ininterrotta fino alla morte.

Questo è ben da sottolineare nella situazione del ’17: il Leopardi prende anzitutto coscienza – nello scambio epistolare con il Giordani (rafforzato poi, nell’anno successivo, da un incontro di persona a cui Monaldo potrà far risalire l’origine delle perniciose idee politiche e filosofiche del figlio) – della propria situazione concreta, della propria «orrenda, infelicissima vita» nel carcere recanatese e paterno, nella arretrata cultura della Marca Picena e in genere dello Stato Pontificio, in opposizione con le sue aspirazioni di vita, con i suoi ideali liberali e patriottici, con la sua crescente spregiudicatezza religiosa e filosofica, con la sua ansia di intervento e di collaborazione nella cultura piú vasta del proprio tempo[1]. L’incontro con Pietro Giordani – di cui il giovane Leopardi sentí il fascino della personalità non grande, ma certo generosa, dominata da un forte istinto pedagogico (esercitato proprio con i numerosi amici giovani da cui il letterato piacentino attendeva, con varia sicurezza di comprensione della loro vera realtà e potenzialità, il rinnovamento classicistico-liberale-nazionale della letteratura e della cultura italiana), ricca indubbiamente di idee antirestaurazione e anticlericali, di forte ripresa dell’eredità alfieriana, anche se inquadrata in una cornice generale letteraria carica di elementi piú pedanteschi e arretrati[2] – fu eccezionalmente fecondo e decisivo quanto piú si consideri l’obbiettiva superiorità del Giordani rispetto al milieu erudito-letterario fino allora sperimentato dal Leopardi, l’immagine alta che il giovane se ne fece in questo periodo e la situazione di un giovane, bisognoso di un’amicizia appassionata e liberatrice, di un polo di affetti e di discussioni senza riserve e senza cautele diplomatiche. Quell’incontro permetteva al Leopardi di espandere pienamente il suo animo, riboccante di affetti e di tensioni ideali e culturali (e la prosa stessa di quelle lettere è singolarmente rinnovata e rinfrescata rispetto alla prosa piú accademica e puristica degli scritti eruditi e critici di quegli anni), come gli permetteva, nel dialogo con l’amico cosí fervidamente acuto nell’intuizione e nel riconoscimento della sua grandezza, di prender piú chiara coscienza di sé, della propria situazione bloccata e infelice, mentre sempre piú si incrinavano le persistenti prospettive cattoliche e la fiducia nella consistenza reale dei princípi della Restaurazione che venivano rivelandosi fallaci e contraddittori con la realtà della decadenza della «povera Italia», dell’azione repressiva dei príncipi restaurati[3], dell’arretratezza di gusto dei «devoti».

E cosí il classicismo letterario del giovane si alimentava – oltreché di una intransigente esigenza di sperimentazione, di studio dello stile – di un riferimento sempre piú appassionato e coerente al patriottismo risorgimentale e antitirannico e al bisogno di un’attività letteraria come fonte di gloria e come impegno in una entusiastica missione di collaborazione al riscatto dell’Italia (per la quale, dice il Leopardi, «voglio spendere tutta la mia vita»)[4] e in una vita intensa e pienamente esercitata.

Ché se sul piano piú direttamente letterario non mancano nel carteggio del ’17 decisivi e bene espressi dissensi del giovane scrittore con il suo amico-maestro (la possibilità – contro le affermazioni neoclassiche del Giordani – di ricavare il diletto estetico anche da spettacoli e situazioni «non belli» o il rifiuto appassionato dell’iter pedagogico giordaniano della preparazione necessaria del poeta attraverso l’esercizio della prosa), sul piano piú etico-politico-culturale il consenso è netto e trova una significativa comune auctoritas nell’Alfieri, chiamato nelle lettere leopardiane «sommo italiano», «mio Alfieri», autore di «santi» detti, e ben presente nella prosa di quelle lettere con chiaro richiamo del suo linguaggio appassionato, sia che il giovane parli del suo «sviscerato amor di patria» sia che egli parli della sua «smania violentissima di comporre» e delle «sue orribili malinconie» o dei suoi desideri «caldissimi e ardentissimi» o dei suoi affetti «sublimissimi».

Ed ecco, sotto il dialogo con il Giordani si instaura un dialogo ideale profondo con il grande Alfieri che rimarrà – specie con la Vita, ma in realtà con tutte le sue opere e con la sua personalità possente – una delle massime presenze (e non ci si insisterà mai abbastanza) nella sua poesia piú agonistica ed eroica (si pensi, come vedremo, alle posizioni zibaldonesche del ’20-21 sull’eroismo, sull’avversione per il cristianesimo ascetico, si pensi non solo alla canzone alfieriana delle Nozze della sorella Paolina, ma alle suggestioni alfieriane del Saul e della Mirra nel Bruto minore e nell’Ultimo canto di Saffo)[5], e che ora, nel ’17, assume un valore dirompente e liberatore di nuove energie e di nuove prospettive nell’esaltazione dell’amor di patria e di libertà, della propria personalità destinata alla gloria e siglata da una sicura nobiltà spirituale e morale intransigente, e dello stesso legame fra letteratura, studi e affetti eccezionali, come l’amore.

Proprio l’esperienza dell’amore alla fine del ’17, quando tutte le forze leopardiane sono entrate in fervido e sin eccitato movimento, viene a congiungere strettamente il ricavo del dialogo con il Giordani e di quello – a livello tanto piú profondo – con l’Alfieri, in una pressione espressiva che si dirama fra prosa e poesia nel Diario del primo amore e nell’elegia del Primo amore e che nel primo ha certo il suo esito per ora piú interessante, denso e sicuro, sollecitato fortemente da quella lettura della Vita alfieriana da cui (mentre ne traeva un sonetto, Letta la vita dell’Alfieri scritta da esso, che confermava il contrasto fra la situazione dell’Alfieri che visse ed ottenne la gloria e se stesso destinato a morte precoce e cosí privato di vita e di gloria tanto ardentemente vagheggiate) il Leopardi era spinto ad un’operazione di diario analitico della propria esperienza amorosa in atto, come conoscenza di se stesso, della propria vocazione all’amore, alla grandezza, all’azione, alla poesia, fra di loro inseparabili. Temi alfieriani che si intrecciano con la suggestione alfieriana del rapporto fra musica e sentimento malinconico, del valore del ricordo nello scatto del suo risorgere improvviso e nella sua forza maggiore rispetto al sentimento presente, e si costruiscono in una prosa attenta e lucida – sensibile, presa fra il gusto alfieriano di diminutivi autoironici e graduanti – «doloretto acerbo», «piaceruzzo», «nebbietta di malinconia», «favilluzza», «piaghetta amorosa mezzo saldata» – e quello, pure cosí alfieriano, di espressioni estreme e superlative – «votissima giornata», «scontentissimo e inquieto», «giorni smaniosissimi», «orecchio avidissimamente teso».

Da questo diario cosí affascinante pur nella sua gracilità nasce una prima immagine di scrittore acutissimo e finissimo nel seguire il sorgere, lo smorzarsi, il riaccendersi di un sentimento, che implica, nelle sue pieghe, tutto un manifestarsi di meditazioni e intuizioni sulla propria vita interiore e sulla sua singolare nobiltà e sensibilità, ormai sicura della propria vocazione di grandezza e di poesia assicurata da un’esperienza che nella prosa delle lettere al Giordani lo porta persino ad un fortissimo orgoglio e ad un senso di autosufficienza sdegnosa («Ha sentito qualche cosa questo mio cuore, per la quale mi par pure ch’egli sia nobile, e mi parete pure una vil cosa voi altri uomini, ai quali se per aver gloria bisogna che m’abbassi a domandarla, non la voglio; ché posso ben io farmi glorioso presso me stesso, avendo ogni cosa in me, e piú assai che voi non mi potete in nessunissimo modo dare»)[6], che prepara quel sentimento di sin assurdo intervento tutto personale eroico che provocherà lo scatto della canzone All’Italia: «combatterò, procomberò sol io».

E se nel tentativo piú sintetico del Primo amore, che cerca un distanziamento, già nel passato, dell’esperienza recentissima, il Leopardi sembra sopraffatto dall’eccesso di echi letterari mal amalgamabili e dal tentativo di fusione della poesia di «immaginazione» e di «affetti», tanto da provare poi nell’Elegia II (da cui solo piú tardi ricavò il frammento XXXVIII) una diversa aggressione brusca e drammatica dell’argomento amoroso fino al convulso desiderio della morte, proprio questa seconda prospettiva – alimentata dalle letture assai percepibili di testi come il Werther e l’Ortis – indica il crescere della tensione sentimentale, l’ingorgo fremente di volizioni ed affetti che l’individualità esasperata del giovane crea in una situazione di crisi sempre piú urgente e appassionata, in cui convergono i riflessi della situazione personale e della situazione storica in un nesso mal separabile e comunque tutt’altro che puramente letterario e accademico-retorico.

Perché questo è ben da considerare passando al 1818 con il Discorso di un italiano sopra la poesia romantica e le due canzoni patriottiche: la crisi di formazione del Leopardi è sincera e profonda e falsissimo è prospettarla in pretesto di esercitazioni puramente accademiche superate solo quando spunterebbe liberatore e sincero il sentimento «idillico» dello «spettatore alla finestra» e dell’uomo incapace di vivere se non nella dorata dimensione della contemplazione «idillica». Né può dimenticarsi il fatto che proprio in questo periodo il Leopardi inizia (fra ’17 e ’18) lo Zibaldone con la rete nascente dei suoi pensieri letterari, ma insieme filosofici e morali se già fra le prime pagine di quello affiora il seguente pensiero, prima base di tutto lo sforzo leopardiano di creare il «sistema» della natura e delle illusioni cercandovi quella integralità umana e quella unione poetico-morale-filosofica cui il Leopardi aspirava di fronte ai propri problemi personali e al quadro culturale italiano quale gli si veniva precisando – non senza grosse lacune e incertezze – attraverso la considerazione della situazione contemporanea: «Gran verità, ma bisogna ponderarle bene. La ragione è nemica d’ogni grandezza: la ragione è nemica della natura: la natura è grande, la ragione è piccola. Voglio dire che un uomo tanto meno o tanto piú difficilmente sarà grande, quanto piú sarà dominato dalla ragione: ché pochi possono esser grandi (e nelle arti e nella poesia forse nessuno) se non sono dominati dalle illusioni...»[7].

Qui il ricavo dell’appassionato studio dei classici e del loro mondo «naturale» e ricco di generose illusioni, l’appello alfieriano al predominio del «forte sentire», echi rousseauiani e del rousseauismo passato nel Werther e nell’Ortis (il drammatico libro foscoliano rimasto fondamentale in questa fase leopardiana e tanto piú attivo in Leopardi di quanto non sia stata la poesia foscoliana fra Sepolcri e Grazie) si consolidano in un fulmineo schema di contrasto estremo al cui centro è l’idea dominante dell’uomo «grande», sperimentata in se stesso alla luce delle proprie esperienze sentimentali piú recenti e sul controluce di un mondo angusto, mediocre, ragionatore-calcolatore, privo di tensione, di tipo monaldesco (il padre è ormai da tempo un termine di paragone reattivo, capovolto rispetto alla infantile ammirazione del figlio) che Leopardi poi sempre combatterà anche quando abbandonerà il sistema della natura, ma non il disprezzo per tutto ciò che gli apparirà mediocre, egoistico, «buonsensaio», privo di autenticità, di naturalezza, di forte carattere, di slancio intellettuale, morale, poetico, magari identificato negli ipocriti spiritualisti napoletani – all’altezza dei Nuovi credenti del ’35 – colpiti oltretutto come gente che «né il bel sognò giammai né l’infinito».

Ma per ora lo scavo filosofico («gran verità, ma bisogna ponderarle bene»: e il Leopardi impiegherà molti anni a «ponderarle», ad affermarle, per poi logorarle e rifiutarle nel loro aspetto sistematico con un enorme lavorio intellettuale e poetico) è scarso, e quella tesi si prospetta nella sua dimensione piú specificamente letteraria pur implicando osservazioni sull’uomo che vanno al di là del puro problema estetico, sotteso insieme da una passione di intervento culturale e civile in prima persona che ben si dimostra nel Discorso di un italiano sopra la poesia romantica, del marzo 1818.

Nel Discorso di un italiano sopra la poesia romantica il Leopardi, mentre utilizza la contrapposizione natura-ragione colpendo nel romanticismo (cosí come gli appariva nella prospettiva di una conoscenza non intera del dispiegantesi fenomeno romantico) un allontanamento dalla natura in nome di uno psicologismo artificioso, di un mimetismo descrittivistico patetico «sforzato e feroce», di una poesia di civilizzazione ricorrente viceversa agli elementi «barbarici» del Medioevo (sempre attaccato dal Leopardi come epoca bassa e oscura) o esotici (e quindi non «popolari»), trova nei presupposti e nelle discussioni preromantiche-neoclassiche a lui ben note un elemento di chiaro rinnovamento del classicismo e dei suoi pericoli imitatorii ed archeologico-mitologici, alimentando il «suo» classicismo di una forte componente sensistica («i romantici si sforzano di sviare il piú che possono la poesia dal commercio coi sensi, per li quali è nata e vivrà finattantoché sarà poesia, e di farla praticare coll’intelletto, e strascinarla dal visibile all’invisibile e dalle cose alle idee, e trasmutarla di materiale e fantastica e corporale che era, in metafisica e ragionevole e spirituale») e di una forza patetica che egli rivendica alla poesia antica (cosí arricchendola di una interpretazione sentimentale e romantica), mentre d’altra parte, nell’alacrità confusa ed urgente della sua forza in formazione, egli si rifiuta di ridurre tutta la poesia al «patetico» giustificando cosí le sue prospettive di lirica eloquente, patriottica e parenetica.

E d’altra parte, mentre esalta. in pagine commosse e poetiche, le riserve della «esterminata operazione della fantasia» propria della fanciullezza ed adolescenza (indicando cosí una delle fonti della sua poesia), ben si preoccupa per altro di rifiutare una poesia troppo semplice e fanciullesca, priva di arte e di studio e cosí in realtà rozza e artificiosa («chi sente e vuole esprimere i moti del suo cuore ec. l’ultima cosa a cui arriva è la semplicità e la naturalezza e la prima cosa è l’artifizio e l’affettazione»), indicandoci in nuce la fortissima radice della sua poesia coltissima ed elaborata, e solo cosí capace di raggiungere (contro la infatuazione romantica della composizione di getto) la sua casta semplicità e verità.

Cosí il Discorso, folto, sottile e non privo di feconde contraddizioni, non si isola in sé e per sé, e non costituisce la base diretta ed univoca della poesia idillica, ma si organizza entro la complicata formazione leopardiana con un attrito non solo reattivo alle istanze romantiche, se poco piú tardi il Leopardi scriverà le due canzoni patriottiche, ma insieme quelle dell’inizio del ’19 cosí vicine persino al «patetico sforzato» da lui condannato.

Un punto è isolabile saldamente: la repulsione per una poesia spirituale e metafisica che si traduce nella posizione sensistico-conoscitiva de L’infinito, ben diversa da una posizione mistica e metafisica e non perciò meno attratta da piaceri e slanci sensibili-ultrasensibili, inattingibili da parte di un duro sensista impoetico e incapace di uno scavo nella sensibilità, che non trova equivalenti nella letteratura prima del preromanticismo e del romanticismo. Ché quella del Leopardi era una via singolarissima e mal inquadrabile in una pura e semplice schematizzazione di «classicismo», specie nel suo sviluppo e nelle sue piú alte conclusioni, e la sua polemica antiromantica investe in realtà aspetti cospicui, ma non interi del fenomeno romantico italiano ed europeo, per non ripetere poi quante delle premesse preromantiche, con le inquietudini e la sensibilità di un’epoca in crisi, fossero in lui già attive e possedute, diversamente da quanto potrebbe avvertirsi nello stesso Giordani e nei prosatori della prosa illustre, nei poeti classicisti del primo Ottocento[8].

La passione nazionale e la volontà di riportare il discorso estetico in un quadro piú vasto di ripresa culturale e civile italiana e di far valere la poesia come forza di rigenerazione patriottica si esplicitano nel finale enfatico, ma tutt’altro che convenzionale, del Discorso, rivolto significativamente ai «giovani» italiani («Prometto a voi prometto al cielo prometto al mondo, che non mancherò finch’io viva alla patria mia...», «la povera patria nostra... non può essere aiutata fuorché da voi»)[9] e – accordandosi con la inquietudine estrema del giovane recluso e impedito di vivere secondo i propri ideali eroici ed attivi – si commutano nella tensione poetica delle canzoni dell’autunno di quell’anno, prima impetuosa manifestazione dell’animo leopardiano con tutte le sue forze crescenti ed irrompenti, con il suo bisogno di intervento pubblico e storico, con la sua volontà eroica individualisticamente sin paradossale e non perciò men sincera, e con la sua delusione storica che ha dissipato gli inganni della Restaurazione e in questa vede ormai la mortificante e malefica pace antieroica e pesantemente oppressiva di un sistema che accentua l’egoismo ingeneroso, l’assopimento inerte degli italiani.

L’inerzia senza passione e illusioni, l’alienazione dalla natura e dal forte sentire eroico diviene l’obbiettivo polemico del disperato sforzo volitivo-poetico del Leopardi, il quale vive in se stesso e nella sua situazione i riflessi di questa storica situazione con disperata e irrequieta tensione, portata – prima della sua risoluzione piú precisa, fra combattiva e desolata, nelle due canzoni – ad un’estrema concitazione interna, drammaticamente espressa in quell’abbozzo o argomento di una «elegia seconda» che nell’occasione del suo ventesimo compleanno riepiloga tumultuosamente i termini del contrasto tra forzata esclusione dalla vita e bisogno di azione e di poesia; e di un’azione e una poesia che cercano il loro oggetto piú degno mescolando febbrilmente amor di donna e amor di patria e ad essi offrendo drammaticamente la disponibilità di una suprema necessità di sacrificio personale: «Oggi finisco il ventesim’anno. Misero me che ho fatto? Ancora nessun fatto grande. Torpido giaccio tra le mura paterne. Ho amato τε σωλα, O mio core, ec. non ho sentito passione non mi sono agitato ec. fuorché per la morte che mi minacciava. ec. Oh che fai? Pur sei grande ec. ec. Sento gli urti tuoi ec. Non so che vogli, che mi spingi a cantare a fare né so che, ec. Che aspetti? Passerà la gioventú e il bollore ec. Misero ec. E come πίαχερώ a τε senza grandi fatti? ec. ec. ec. O patria, o patria mia ec. che farò? non posso spargere il sangue per te che non esisti piú ec. ec. ec. che farò di grande? come piacerò a te? in che opera per chi per qual patria spanderò i sudori i dolori il sangue mio?»[10].

Sentimento della grandezza del proprio animo, bisogno di totale impiego e sacrificio di se stesso si intrecciano in un fervore convulso che ben testimonia come la canzone All’Italia, che a quel fervore risponde, non sia affatto un’esercitazione accademica, e come la delusione patriottica, base del tentativo di capovolgere la situazione esistente con la poesia e con la proposta del proprio isolato combattimento, sia davvero tale («per te che non esisti piú») da far meglio capire ancora la carica disperata di quella canzone e la ricaduta piú desolata della seconda.

Certo la solitudine stessa del Leopardi, la scarsa percezione di quanto c’era di vivo nell’ambiente romantico milanese da un punto di vista nazionale (o di quanto pur si muoveva nell’incipiente attività carbonara: nel ’17 proprio a Macerata si ebbe una prima congiura carbonara seguita da processi e condanne) contribuivano ad estremizzare la delusione leopardiana. Ma ciò che conta non è tanto la precisa corrispondenza con i fatti quanto la forza estrema della delusione patriottica e personale e della volitività eroica che anima le due canzoni e separa ormai nettamente il Leopardi non solo dalla posizione paterna, ma anche da quella della Restaurazione che è ormai per Leopardi l’epoca dell’estrema rovina dell’Italia. Infatti se nelle due canzoni l’«ultima rovina» è identificata con la dominazione francese napoleonica e con la morte dei giovani italiani nella campagna di Russia, questa stessa diagnosi negativa di quella dominazione si alimentava ormai non tanto dell’avversione antirivoluzionaria quanto delle posizioni alfieriane e foscoliane dell’Ortis, delle loro istanze indipendentistiche e unitarie antifrancesi e il riferimento piú implicito, ma urgente era quello che riguardava il presente (e dunque la condizione dell’Italia della Restaurazione): si pensi (a parte una dichiarazione successiva del Leopardi circa il «falso scopo» della dominazione francese, allusione, anche, ai nuovi dominatori austriaci e ai loro vassalli italiani[11]) al titolo stesso dell’abbozzo comune delle due canzoni, Sopra lo stato presente dell’Italia e a passi dell’altro e piú tardo abbozzo Dell’educare la gioventú italiana (poi ripreso nella canzone del ’21 Nelle nozze della sorella Paolina), in cui si dice che «questo tempo è gravido di avvenimenti» e che la riscossa italiana avverrà «in questa generazione che nasce o mai».

Sicché – a parte i dissensi di filofrancesi e ammiratori del regime napoleonico[12] – quelle canzoni furono effettivamente comprese dagli uomini del Risorgimento nel loro vero significato patriottico risorgimentale e viceversa uomini della Restaurazione, come lo zio Carlo Antici, espressero sorpresa e rammarico di fronte a quella disperazione e a quello sdegno che ad essi apparivano assurdi ed ingiusti, rispetto alle «felici» prospettive della Restaurazione, specie nella seconda canzone, in cui proprio l’età della Restaurazione con la sua «pace» tetra e oppressiva campeggia nell’atmosfera attediata e nel compianto elegiaco e sdegnato di quella poesia.

E quale senso avrebbe avuto, nel 1818, l’invocazione «l’armi, qua l’armi» se riferita solo alla distrutta dominazione napoleonica?

Chiara è dunque la direttiva della delusione storico-patriottica del Leopardi che coinvolge la dominazione francese e quella dei nuovi padroni d’Italia a cui soprattutto «attualmente» si rivolgeva, con carica eroico-disperata, il giovane poeta militante che insieme – ciò che meglio aiuta a comprendere la genesi della canzone All’Italia – esemplificava in quella la sua nozione di una lirica eloquente come arma di intervento storico e come ripresa dello spirito classico-eroico sia nel tema delle generose illusioni di grandi età naturali e libere (il canto di Simonide e le battaglie dei greci contro i persiani) sia nella stessa impostazione monumentale e altamente «rettorica» piena di voluti richiami alla tradizione classica e classicistica, alla lirica eloquente dal Petrarca al Testi, al Chiabrera, al Filicaia, al Guidi, al Monti.

Né d’altra parte – a capire ancor meglio la natura di quella tanto discussa canzone o solo contenutisticamente una volta esaltata o solo squalificata nella sua apparenza di oratoria esercitazione – l’impennata personale («combatterò, procomberò sol io») cosí ingenua, ma sincera e raccordabile con l’inquieta tensione generale della personalità bisognosa di configurarsi in atti e appelli estremi[13], può separarsi dalla parlata di Simonide, ché quella sostiene e giustifica questa, animata pure da una volitività eroica trasferita nel passato e nella sua dimensione piú vagheggiata e ricca di toni, ma ugualmente tesa da un impeto schietto che permea le forme sontuose, opulente e arcaico-moderne volute dal classicismo leopardiano in questa sua fase piú giovanile e che comunque – pur lontane come sono dagli sviluppi del linguaggio successivo – di questo impostano elementi fra arditi e teneri, fra cupi e affettuosi (l’immagine iniziale dell’Italia piangente, termine di un ardente «tu» colloquiale tutt’altro che astratto nella stessa corrispondenza all’infelicità personale del poeta) e preparano elementi di «pellegrino» e di «vago» che si fondono già nei punti piú sensibili della canzone (l’«onda morta», e lo «scuro Tartaro», «senza baci moriste e senza pianto»).

Poi nella seconda canzone, Sopra il monumento di Dante, la spinta estremistica della prima dà luogo al piú profondo ricavo della delusione storico-patriottica cosí personalmente sofferta, a un tono di compianto[14] e di tedio inerte, di torpore, di sopore che permea tutta la costruzione pur nel suo insieme piú faticosa e pesante, per condensarsi piú poeticamente nell’alto passo di commemorazione dei giovani italiani morti nella campagna di Russia, intonato al fondamentale intreccio di squallore, di pietà e sdegno e fattosi a un certo punto voce corale delle giovani vittime ed espressione allusiva dei primi contrasti leopardiani fra la radiosa età giovanile e la condizione di una morte eroica, inutile, ignota. Mentre nel finale la riapparizione del motivo piú volitivo ed esortativo si svolge coerentemente – sull’onda di questa delusione prevalente – nell’immagine suggestiva di una migrazione degli italiani decaduti dalla loro terra gloriosa e di una visione desolata dell’Italia deserta e muta di vita.

Ormai la delusione prevale e muove le forze dell’animo leopardiano a un generale allargamento di pessimismo e di compianto che vanno al di là della precisa situazione politica e investono – seppur con squilibri e incertezze di linguaggio e di costruzione – il piú generale campo morale della situazione italiana e lo stesso sentimento dell’esistenza umana. Come avviene nelle due canzoni dell’inizio del ’19 – poi rifiutate per ragioni di gusto e al di là della censura del padre, allibito di fronte ad argomenti cosí pericolosi e cosí poco religiosamente accettabili – in cui (pur nella difficile impresa di trattare persino un argomento di cronaca nera del tempo e di accedere a una tematica romantica[15] aggredita con impasto arduo e irrisolto di linguaggio aulico e realistico) il Leopardi intendeva portar nuove prove dirette della decadenza morale italiana e di un tempo privo di vere passioni, surrogate dall’egoismo piú sordido, come lo era di virtú civili e patriottiche.

Infatti quella Nella morte di una donna fatta trucidare col suo portato dal corruttore per mano ed arte di un chirurgo si apre con questo raccordo significativo alle canzoni patriottiche:

Mentre i destini io piango e i nostri danni,

ecco nova di lutto

cagion s’accresce a le cagioni antiche.

E in quella Per una donna inferma di malattia lunga e mortale l’ingorgo di temi fra delusione storico-patriottica e delusione di una vita depauperata dall’egoismo, e delusione della vita in genere, amata, ma avvertita nella sua caducità e vanità, che nella prima si accavallano convulsamente, viene a risolversi in un piú diretto e ardente coagulo, impulsivamente anticipatore, di temi ben leopardiani fra il rilievo della debolezza degli uomini contro il fato, la protesta contro la stessa natura che «ci ha fatti alla sciaura / tutti quanti siam nati», il senso della impersuasione di fronte alla morte che ci priva per sempre, lasciando noi in vita, delle persone amate, il contrasto fra la gioventú piena di vitalità, di entusiasmo, di purezza, di illusioni, e la vecchiezza «nefanda» in cui si spegne quel naturale fuoco nella prudenza, nel conformismo, nel calcolo. L’ipersensibilità morale leopardiana, la passione per le persone concrete e per la loro perdita crudele ed assurda nella morte, l’esaltazione della innocenza («cara, cara beltà, mori innocente») si esprimono qui in maniera scomposta, ma ardente e, pur nei contrasti e nelle incertezze ancora precedenti ad ogni intera meditazione (cosí la protesta contro la natura a cui «nostra famiglia... è gioco» è ancora un germe senza immediato sviluppo), si collegano alla crescente crisi che vien portando il Leopardi fuori di ogni vecchia certezza razionalistica e religiosa e alla ricerca di un appoggio vitale solo nelle illusioni naturali e nella natura come datrice di vitalità e di illusioni attive, generose e poetiche.


1 Si rileggano soprattutto le lettere importantissime del 30 aprile (Tutte le op. cit., I, p. 1023) e del 14 luglio 1817 (Tutte le op. cit., I, p. 1034).

2 Il ritratto che ne ha dato S. Timpanaro nel suo saggio Le idee di P. Giordani (in «Società», 1954) e poi nel volume Classicismo e illuminismo nell’Ottocento (Pisa 1965, 1969²) è certamente suggestivo e ha dato un contributo ben notevole al rilievo della fertilità dell’incontro leopardiano. Ma è anche indubbiamente troppo generoso rispetto alla realtà del letterato piacentino, cosí come tutta la delineazione del classicismo progressivo supera un piú corretto rilievo della importanza di quel côté culturale-ideologico rischiando di perdere di vista quanto di nuovo e moderno era nel côté romantico e di capovolgere la vecchia equazione fra romantici e modernità aperta e progressiva, in una equazione ancor piú dura fra classicisti e modernità progressiva da una parte e romantici e reazione o moderatismo dall’altra. Alla linea classicismo-illuminismo in cui il Timpanaro chiude la posizione del Leopardi di fronte ad ogni raccordo e componente romantici si potrebbe rispondere adeguatamente solo con un discorso lungo e articolato che investirebbe la ridefinizione della realtà non schematica di «romanticismo», «illuminismo», «classicismo»: un discorso solo in parte avviato da varie obbiezioni mosse da vari recensori del libro del Timpanaro e che piú recentemente (prendendo le mosse da questo mio saggio) è stato ripreso direttamente sul Leopardi da P. Fasano (Leopardi controromantico, in «Il Ponte», giugno 1971) in un saggio che tende a vedere un Leopardi il quale svolge a suo modo istanze romantiche di fondo, mentre combatte posizioni romantiche «ufficiali» e precise e qualificate linee di romanticismo spiritualistico reazionario e ottimisticamente «progressista», senza cosí risultare un puro e semplice classicista illuministico, tanta è la pressione di elementi preromantici da lui assorbiti (e si veda per il problema piú generale del romanticismo italiano il mio saggio La battaglia classico-romantica in Italia in Critici e poeti dal Cinquecento al Novecento, Firenze, La Nuova Italia, 3ª ediz. 1963) e tante sono le attrazioni e i connotati di tipo romantico che Leopardi subisce e presenta pur riassorbendole e sviluppandole in una sua particolare via e difendendole da sconfinamenti nel romanticismo reazionario o artisticamente approssimativo con l’arma del classicismo e dell’illuminismo. Né del resto il problema di un romanticismo classicista riguarda solo Leopardi, ma tante altre grandi personalità del primo Ottocento europeo in una vasta raggiera di posizioni male schematizzabile. Il lettore attento troverà del resto nel corso di questo saggio molti spunti atti a contribuire al discorso sopraccennato.

3 Nello Zibaldone (nella parte non datata, ma dopo il ’17 e prima del ’20, Tutte le op. cit., I, p. 85) sono riportati questi versi anonimi (forse dello stesso Leopardi) ben riferibili ai re della Santa alleanza:

Cum pietatem funditus amiserint

pî tamen dici nunc maxime reges volunt.

Quo res magis labuntur, haerent nomina.

4 Cfr. le lettere al Giordani del 30 aprile (Tutte le op. cit., I, p. 1023) e del 30 maggio 1817 (Tutte le op. cit., I, p. 1029).

5 Per tutto ciò che riguarda il rapporto Leopardi-Alfieri rinvio al mio citato saggio Leopardi e la poesia del secondo Settecento.

6 Lettera al Giordani del 16 gennaio 1818 (Tutte le op. cit., I, p. 1048).

7 Cfr. Zibaldone (Tutte le op. cit., II, p. 10).

8 Per la pressione della poesia preromantica italiana e straniera nella formazione della poesia leopardiana rimando al mio saggio citato Leopardi e la poesia del secondo Settecento.

9 Cfr. tutto il brano (Tutte le op. cit., I, p. 947) pieno di anticipazioni rispetto alla canzone All’Italia anche se in chiave di ripresa piú letteraria e culturale che esplicitamente politica.

10 Tutte le op. cit., I, pp. 330-331.

11 Si veda la lettera del 21 aprile 1820 al Brighenti (Tutte le op. cit., I, pp. 1098-1099): «Quelli che presero in sinistro la mia Canzone sul Dante, fecero male, secondo me, perché le dico espressamente ch’io non la scrissi per dispiacere a queste tali persone, ma parte per amor del puro e semplice vero, e odio delle vane parzialità e prevenzioni; parte perché non potendo nominar quelli che queste persone avrebbero voluto, io metteva in iscena altri attori come per pretesto e figura».

12 I riconoscimenti positivi del governo napoleonico, anche se dispotico, e poi della stessa rivoluzione francese sono comunque piú tardi (v. Zibaldone, 31 agosto 1820, Tutte le op. cit., II, p. 101, e 23 maggio 1821, Tutte le op. cit., II, p. 313).

13 L’enfasi eroico-individualistica di «l’armi, qua l’armi» (che par rispondere per eccesso volitivo alla autointerrogazione disperata di Jacopo-Foscolo nell’Ortis: «Ove sono i tuoi figli [all’Italia]? Nulla ti manca se non la forza della concordia. Allora io spenderei gloriosamente la mia vita infelice per te, ma che può fare il solo mio braccio e la nuda mia voce?») fu poi giustificata dal Leopardi come «compenso dell’immaginazione».

14 Si veda in proposito il saggio di L. Blasucci Sulle due prime canzoni leopardiane «Giornale storico della letteratura italiana», CXXXVIII, 1961.

15 Il Leopardi in quel periodo mirava ad adeguarsi al metodo dei classici e a distinguersi da quello dei classicisti mitologici trattando argomenti del proprio tempo e non di quello degli «antenati» (come dice nei Disegni letterari, 4, in Tutte le op. cit., I, pp. 368-369). In realtà tale metodo lo portava a volte molto vicino proprio a quel patetico persino «feroce» da lui deprecato nei romantici nel Discorso di un italiano. Conferma, questa, di una inevitabile attrazione del gusto stesso che il Leopardi combatteva in sede polemica.